L’atmosfera natalizia mi ha convinto a scrivere qualche riga, che si configuri anche come augurio, attorno al tema della felicità. Il tema è vecchio quanto il mondo, e già Aristotele sosteneva che pur essendoci convergenza attorno al nome, vi è tuttavia disaccordo attorno al significato. Su cosa sia la felicità o, meglio, in cosa essa consista vi è, più che dissenso, dubbio. La mia pista interpretativa si basa su una consapevolezza: la maggior parte della nostra vita è spesa nel tentativo di riconoscimento da parte dell’altro e – se si parla con persone adulte – anche nel desiderio di riconoscere l’altro. Esperimento sfiancante e non certo privo di intoppi e crisi, ci permette però di circoscrivere questo lavorio dandogli un nome che, oggi, è impronunciabile (o almeno, io lo pronuncio sempre con molta cautela), per lo stravolgimento semantico a cui è andato incontro. Tale nome è: amore. Se ci pensiamo bene, i nostri giorni scorrono nel desiderio di intessere relazioni d’amore che puntino a riconoscere e ad essere riconosciuti (in poche parole: amare e sentirsi amati). Il centro del mio pensiero attorno alla felicità sta qui: un’esistenza felice si ha quando si concede credito alla pratica del dono e dei legami, quando si dà, ancora, fiducia all’umano. L’odierna difficoltà risente soprattutto della curvatura narcisistica a cui si è sottoposto l’individuo postmoderno, per cui la felicità parte dal (e arriva al) «soggetto che se la sente» (Marion). Di qui l’appiattimento a cui essa va incontro, attestandosi sulle sue schegge: il benessere, l’emozione, il successo, la sicurezza, etc. Frammenti impazziti che non danno la felicità, ma solo una sua parvenza, perché – e qui introduco una mia personale convinzione – hanno smarrito il loro centro. Dal momento in cui si è eclissato il sole dell’assoluto affettivo (Dio), che dava ordine e unione a tutti i frammenti appena menzionati, questi si sono dovuti caricare di un peso che non possono sopportare, di fatto consumando il soggetto nella ricerca spasmodica della ricerca della felicità tramite il suo appagamento totale ed immediato. Ecco dunque il mio invito – il mio augurio – per queste festività natalizie: educhiamoci ed educhiamo il “sentire”, superiamo l’analfabetismo emotivo a cui la cultura corrente ci ha abituati, nella presunzione che l’eterna sperimentazione (di ogni cosa, anche dei legami), determini appagamento e liberazione. Il guaio, e bisogna dirlo con franchezza, è che non scegliere (e quindi continuare a sperimentare), può essere anche utile per appagare le emozioni, ma queste, se non vengono interpretate, non lasciano traccia nella memoria e non mi fanno crescere. E quindi nemmeno mi rendono felice.
don Davide Bonazzoli
Consulente etico FeLCeAF